EVOLUZIONE DEL CLIMA SULLA TERRA E IMPATTO SULLE CIVILTÀ

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    BIOLOGO TEORETICO

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    Gaia: 3° pianeta del Sistema Solare

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    di Giuseppe Badalucco
    per Edicolaweb


    L’età del nostro pianeta viene stimata in circa 5 miliardi di anni e gli scienziati hanno accertato che nella sua lunga storia geologica e climatica il pianeta abbia subito l’alternanza di periodi freddi e di periodi caldi o temperati, lunghi milioni e centinaia di milioni di anni.

    L’evoluzione del clima modificò l’evoluzione della vita stessa, a causa del fatto che ad ogni cambiamento climatico la vegetazione e la fauna dovettero adattarsi ai grandi cambiamenti che subiva la geosfera e l’ecosistema, con conseguenze notevoli sulla sopravvivenza delle specie, cosa che riguardò anche i nostri antenati circa un milione di anni fa.
    Sulla storia climatica del nostro pianeta occorre dire che gli studiosi dispongono di informazioni attendibili solo con riferimento agli ultimi milioni di anni che formano l’Era Neozoica, in cui il clima fu caratterizzato da quattro ere glaciali con tre fasi interglaciali. In queste fasi i continenti presero la forma attuale e apparve la specie umana.
    Vediamo quale furono le ere geologiche del pianeta e l’impatto che ebbero sul clima nelle epoche più antiche prima di giungere all’Era attuale:

    ARCHEOZOICO (durata 4,6 miliardi di anni): in questa prima fase della vita del nostro pianeta vi era la probabile presenza di grandi scudi continentali la cui ubicazione non è nota e si verificarono le prime orogenesi. La composizione dell’atmosfera terrestre era diversa da quella attuale e si modificò nel corso di questo periodo nel quale comparvero i primi organismi unicellulari.

    PALEOZOICO (durata 450/320 milioni di anni): in questo periodo che comprende diversi sottoperiodi inizia l’orogenesi caledoniana (circa 395 milioni di anni fa) e quella ercinica con la formazione del Pangea intorno ai 280 milioni di anni fa.

    MESOZOICO (circa 170 milioni di anni): in quest’era, che comprende il Triassico, il Giurassico e il Cretacico si ha la separazione del Pangea con la formazione del continente boreale (Laurasia) e il continente australe (Gondwana) separati dalla Tetide (circa 225 milioni di anni fa) cui fa seguito l’inizio della deriva dei continenti e l’apertura della fossa atlantica fra America ed Eurasia così come la separazione tra Africa e America meridionale e la sua congiunzione con l’America settentrionale. Tra questo periodo e il Cenozoico si ha, circa 65 milioni di anni fa, la progressiva scomparsa dei grandi vertebrati (dinosauri) e invertebrati (Ammoniti).

    CENOZOICO (circa 50 milioni di anni): in questo periodo inizia lo scontro tra la zolla eurasiatica e quella indiana con l’inizio dell’orogenesi himalayana nonché l’inizio della collisione tra Africa ed Eurasia e il sollevamento della Cordigliera delle Ande. In questo periodo si ha la diffusione dei mammiferi e degli uccelli e della vegetazione attuale e si verifica una forte attività vulcanica.

    NEOZOICO (2 milioni di anni): in questa era, che comprende l’epoca dello sviluppo della civiltà umana, i continenti assumono la forma attuale, ma continua una forte attività vulcanica e sismica. Sappiamo per certo che in questa epoca la terra è interessata da ere glaciali intervallate da fasi interglaciali con conseguente regresso o espansione delle calotte polari. Le glaciazioni determinano lo sviluppo delle specie animali incidendo sulle loro migrazioni e sulla loro capacità di adattamento alle variazioni del clima. Si ha la comparsa e lo sviluppo della specie umana che fu coinvolta a pieno titolo nelle tragiche conseguenze delle variazioni climatiche.

    Per quanto riguarda il clima sulla terra nelle ere più antiche non esiste certezza assoluta, perché gli scienziati sanno di sicuro che agli albori della nascita della vita era diversa anche la composizione chimica dell’atmosfera.
    Gli sviluppi della climatologia e della geologia moderna, con l’aiuto della tecnica, hanno permesso di conoscere in modo più approfondito, attraverso lo studio della composizione chimica dei ghiacci antartici e artici, raccolti con i carotaggi, quale potesse essere il clima sulla terra svariati milioni di anni fa.
    Recentemente si è scoperto che circa 85 milioni di anni fa la terra subì un’inversione geomagnetica dei poli e una modifica delle sue geometrie orbitali, con una variazione della sua obliquità e inclinazione dell’asse terrestre che molto lentamente tornò alla posizione attuale (ne parleremo in modo approfondito in un altro articolo). Gli effetti che derivarono da questa variazione dell’orbita terrestre e dall’inversione geomagnetica dei poli non sono del tutto noti, ma le simulazioni effettuate dagli scienziati hanno dimostrato che in passato, almeno svariati milioni di anni fa, i mari polari erano sgombri dai ghiacci e il clima ai poli era molto più caldo, così come è stato scoperto che le terre che si trovavano, per effetto della deriva dei continenti, alle latitudini polari, erano popolate da una fitta vegetazione che cresce in zone mediamente più temperate (boschi di conifere e latifoglie). Così pure recentemente è stato scoperto che circa 25 milioni di anni fa una forte eruzione vulcanica avvenuta nell’Antartide alterò il clima sulla terra con l’emissione di forti quantitativi di gas e ceneri che ridussero l’assorbimento di calore della superficie terrestre. Quindi le cause delle più o meno repentine variazioni climatiche non sono riconducibili ad un solo fattore ma a più fattori non sempre facili da analizzare e che comunque non possono essere ricondotti ad un modello deterministico.
    I dati scientifici di cui dispongono gli scienziati diventano più attendibili man mano che ci avviciniamo al Neozoico, nel quale è possibile riscontare quattro ere glaciali intervallate da tre fasi interglaciali:

    Gunz, circa 600.000 anni fa

    Mindel, circa 475.000 anni fa

    Riss, circa 230.000 anni fa

    Wurm, circa 116.000 anni fa

    Le prime tre ere glaciali del Neozoico abbracciano il paleolitico inferiore, mentre l’ultima avrebbe caratterizzato il paleolitico medio e superiore, interessando quindi pienamente la specie umana.

    Terminata l’ultima glaciazione, il periodo post-glaciale sarebbe iniziato circa 20.000-12.000 anni fa, con lo scioglimento dei ghiacci e fortissime variazioni climatiche, che hanno inciso notevolmente sulla preistoria della civiltà umana.
    Quello che dobbiamo capire è in che modo i mutamenti climatici possano aver inciso sulla storia dell’Umanità. I dati in possesso degli scienziati dimostrano innanzitutto che le specie umane che vissero tra 100.000 e 20.000 anni fa furono costrette a convivere con l’ultima glaciazione, con tutte le conseguenze che si possono immaginare.
    Alcuni studiosi hanno la quasi certezza che l’Uomo di Neanderthal, scomparso circa 40 mila anni fa, subì gli effetti devastanti dei mutamenti climatici in corso in quell’epoca, al punto che il mistero circa la scomparsa di tale specie può essere legato alla minore capacità di adattamento ai grandi cambiamenti del sistema climatico, che videro l’Uomo di Cro-Magnon, che disponeva di una tecnologia più evoluta, più preparato ad affrontare, da un punto di vista organizzativo della comunità, i mutamenti ambientali.
    La diffusione dell’Uomo di Cro-Magnon avviene in questo periodo iniziato circa 30 mila anni a.C., con alcune differenziazioni che hanno dato origine alle diverse tipologie di razze. Questo periodo, che è l’epoca in cui l’Uomo gettò le basi per lo sviluppo della civiltà umana, si suddivide in due sottoperiodi; quello preceramico, di circa 20 mila anni e quello ceramico, risalente agli ultimi 8 mila anni.
    In quest’epoca, prima che iniziasse l’ultimo periodo post-glaciale la preistoria della civiltà umana fu caratterizzata da grandi migrazioni di massa, le cui cause possono presumibilmente farsi risalire ai mutamenti climatici, di cui almeno due sono divenute "classiche".
    Nell’ultima era glaciale, quando lo stretto di Bering era completamente ricoperto dai ghiacci, popolazioni asiatiche attraversarono lo stretto colonizzando le Americhe, sicuramente in cerca di zone più temperate in cui praticare la raccolta dei frutti della terra e la caccia.
    La "parentela", individuata dagli antropologi tra popolazioni amerindie e asiatiche, sarebbe legata proprio ad avvenimenti di questa portata. Così pure le tribù indoeuropee che avevano origine presumibilmente nell’Europa orientale e nell’Asia centrale migrarono all’incirca 10 mila anni fa verso l’Europa centrale e meridionale, spinte sicuramente dalla necessità di soddisfare il bisogno di sopravvivenza legato alle attività primarie.
    Anche se bisogna ammettere che sulle origini e sulle migrazioni degli Indoeuropei non vi è concordia nella comunità scientifica, perché vi sono studiosi di grande fama internazionale quali, J. Haudry, G. Kossinna, P. Thieme, L. Kilian e F. Bourdier, i quali hanno ipotizzato, sulla base di dati paleontologici e archeologici, che la formazione della prima comunità indoeuropea possa farsi risalire anche al primo neolitico o alla fine del paleolitico superiore, mentre per quanto riguarda la localizzazione della patria originaria indoeuropea tali studiosi propendono per l’ipotesi che la zona originaria possa collocarsi nell’Europa settentrionale (Germania o Scandinavia meridionale). Tali studiosi hanno sostenuto portando prove più o meno convincenti, che il substrato delle popolazioni indoeuropee vada cercato nelle tribù di cacciatori di renne che, al termine dell’ultima glaciazione wurmiana (intorno al 9000 a.C.), si spinsero verso il nord Europa colonizzando le pianure sgombre dai ghiacci.
    Le prove sarebbero legate alla presenza, nei testi mitologici delle popolazioni celtiche, germaniche e indoiraniche, di importanti riferimenti ad una patria "artica" da cui gli indoeuropei sarebbero migrati a causa di un disastro naturale o di un mutamento climatico (da ciò sarebbe derivato il mito della razza iperborea).
    Ciò che sorprende degli studi di J. Haudry è la volontà di ribaltare le tesi classiche sul substrato economico e ambientale degli avvenimenti umani e sociali, contraddicendo le ipotesi per cui la migrazione possa essere avvenuta per motivi legati ai mutamenti climatici, che incidono sulle attività primarie, oppure ad una crisi di esplosione demografica. Haudry attribuisce le cause a fenomeni di natura culturale e di organizzazione sociale, una tesi senz’altro originale. Tuttavia, come sappiamo, la culla della civiltà fu il Vicino Oriente in cui si svilupparono le prime civiltà storiche su cui è stata fatta luce in questi ultimi due secoli di ricerca storica e archeologica.
    Prima di giungere alla storia recente occorre mettere in luce come alcune importanti scoperte e innovazioni andarono di pari passo con i mutamenti climatici che caratterizzarono tutto il globo a partire dall’ultimo scioglimento dei ghiacci, circa 13 mila anni fa.
    Recenti scoperte, che hanno interessato anche ricercatori italiani, hanno dimostrato che un antenato del grano fu coltivato per la prima volta circa 12 mila anni fa in alcune zone del Vicino Oriente, tra cui l’attuale Turchia; anche se la comunità scientifica tende ad abbassare fortemente le epoche di passaggio dalla vita nomade delle popolazioni dell’area del Vicino Oriente all’attività di coltivazione della terra.
    Sicuramente impressiona il fatto che alcuni sviluppi dell’agricoltura si ebbero nell’epoca dell’ultimo scioglimento dei ghiacci al termine dell’ultima glaciazione, quando i mutamenti climatici permisero lo sviluppo dell’agricoltura nelle fasce climatiche più temperate.
    Ritrovamenti e testimonianze di esperimenti agricoli con mezzi rudimentali si hanno anche nella valle del Nilo e in zone desertiche dove circa 12 mila anni fa vi era un clima temperato e piovoso.
    Questi sviluppi si sarebbero interrotti nei millenni successivi a causa di successivi mutamenti climatici che evidentemente devono avere interessato la zona in questione, dato che 5 mila anni fa tale zona era già completamente desertica.
    Circa 2000 anni prima dell’Egitto storico (quindi circa nel 5000 a.C., ma forse anche in epoca anteriore) vi sono le prove dell’esistenza di insediamenti indigeni nella valle del Nilo, insediamenti di popolazioni che praticavano l’agricoltura.
    È proprio sull’origine del periodo preceramico delle popolazioni della valle del Nilo che vi sono molti punti oscuri; si trattava di popolazioni che provenivano presumibilmente dall’Africa centrale circa 30-40 mila anni fa ed erano di origine camita (pelle oscura). Tali popolazioni subirono gli effetti dei mutamenti climatici avvenuti circa 20 mila anni fa, per cui divenuta torrida tale zona si spostarono verso la valle del Nilo dove svilupparono una cultura indigena autonoma.
    A noi interessa mettere in luce, in questo caso, non tanto quale sia stata l’origine della civiltà umana quanto piuttosto l’impatto che i mutamenti climatici ebbero sul rallentamento o sulla velocizzazione dello sviluppo delle attività umane.
    A fronte dei mutamenti climatici disastrosi che colpirono la terra al termine dell’ultima glaciazione, corrisposero diverse situazioni; in alcune zone sgombre dai ghiacci fu possibile iniziare la raccolta di frutti spontanei della terra che permisero lo sviluppo del nomadismo a cui fecero seguito migliaia di anni dopo i primi insediamenti abitativi; ma in altre zone, che precedentemente erano abitate dagli esseri umani, le terre furono letteralmente sommerse, bloccando lo sviluppo di esperimenti legati all’economia agricola. Proprio questi fenomeni di sconvolgimento legati a prolungate alluvioni possono aver rappresentato il motivo dell’abbandono di esperimenti agricoli in zone nei quali lo sviluppo avrebbe potuto essere lineare (anche se bisogna riflettere sul fatto che la linearità della storia non è un fatto assodato).
    È stato dimostrato che nei periodi nei quali si verificarono i cosiddetti "diluvi", di cui l’ultimo viene fatto risalire, nella zona del Mar Nero intorno al 7000-6000 a.C., le popolazioni che volevano spostarsi dalle zone disastrate dovevano letteralmente fuggire inseguite dalle acque, che crescevano con un ritmo incalzante di circa mezzo metro al giorno. In un contesto di questo genere è abbastanza comprensibile che nella memoria storica di queste antiche popolazioni sia rimasto un ricordo indelebile di un diluvio voluto dagli dei per punire l’Umanità corrotta.
    È importante adesso analizzare i mutamenti climatici, anche su scala locale, che possono essere intervenuti in epoca storica, quindi in epoca per la quale, con l’invenzione della scrittura, è possibile valutare l’esistenza di testimonianze attendibili su tali mutamenti.
    Occorre precisare che spesso, in passato, gli studiosi accademici hanno attribuito scarsa importanza all’impatto che i mutamenti climatici possono aver avuto su gli eventi della storia umana recente, per il semplice motivo che si ritiene che in tale arco di tempo non vi siano state significative variazioni climatiche (parliamo degli ultimi 4000-2000 anni).
    Su alcune importanti tappe storiche delle civiltà antiche non sono date risposte convincenti da parte della comunità scientifica. È il caso, per esempio, della fine del Regno Antico egiziano (3000-2200 a.C. circa) su cui la stragrande maggioranza degli egittologi si è sempre dichiarata convinta che la caduta repentina della civiltà egiziana in quell’epoca sia stata provocata da una rivoluzione sociale e religiosa che abbia modificato per sempre il ruolo delle istituzioni, con modifiche anche nel pantheon religioso adottato dalle dinastie successive. Tuttavia persone di grande fama internazionale, come l’archeologo Khassan, hanno fatto riflettere tutta la comunità sul fatto che, oltre a tumulti sociali che possono sicuramente avere interessato l’Egitto in quell’epoca, vi sono anche altre cause legate a disastri naturali che determinarono l’annientamento di milioni di vite umane.
    Spendendo tutta la propria credibilità, muovendosi controcorrente rispetto alle tesi dominanti, Khassan dimostrò che la presunta regolarità nelle piene annuali del Nilo non fu sempre tale, ma almeno in un’epoca approssimativa a quella della caduta del Regno antico, il Nilo subì una forte riduzione della sua portata, a causa di una improvvisa variazione climatica che determinò una riduzione delle piogge e una forte siccità in tutta la zona attraversata dal Nilo. Le intuizioni di Khassan furono confermate da svariati studiosi operanti nelle migliori Università del mondo i quali, studiando l’analisi chimica dei ghiacci contenuti nelle stalattiti di grotte in diverse zone climatiche (da Israele all’Islanda), si accorsero che la concentrazione di ossigeno "pesante" e "leggero", che cambia a seconda della maggiore o minore piovosità, era, per il periodo tra il 2.300 e il 2.100 a.C., tale da confermare l’assenza di piogge per un periodo molto prolungato.
    Ulteriore conferma venne dall’analisi dei sedimenti formatisi sul fondo di un lago naturale formato dal Nilo nel suo corso, che erano letteralmente assenti per quel periodo, a dimostrazione che le piogge si erano ridotte e il lago prosciugato.
    Nonostante queste importanti scoperte, occorre precisare che gli studiosi non hanno tenuto nella dovuta considerazione l’esistenza di più o meno brevi cicli climatici i cui effetti sulla vita umana possono essere più profondi di quello che gli studiosi fossero disposti ad ammettere.
    Vi sono altri importanti episodi storici come l’invasione dei popoli di origine semitica che calarono in Egitto intorno al 1.700 a.C., i cosiddetti Hyksos, che restano avvolti nel mistero, poiché non si riesce a capire l’origine di un’invasione così massiccia che modificò la storia della civiltà egiziana di quell’epoca.
    Testimonianze che ci provengono dalla ricerca scientifica parlano di sconvolgimenti climatici e disastri naturali, legati all’attività sismica e vulcanica in una fase compresa tra il 1.500 e il 1.250 a.C., che avrebbero determinato la fine della civiltà micenea.
    Difficile dire se possano esistere legami tra migrazioni, più o meno prolungate nel tempo, di popolazioni provenienti dal Vicino Oriente, con mutamenti climatici di questa portata, anche se i periodi non sembrano del tutto compatibili.
    Svariati esempi si possono fare nella lunga storia delle civiltà antiche.
    Nel II millennio a.C. popolazioni provenienti dal nord, i cosiddetti Achei, invasero e si stanziarono nella Grecia e presero il possesso di tutta la zona gettando le basi per lo sviluppo della successiva civiltà greca. Anche qui, quali le motivazioni? Certo, popolazioni provenienti da nord possono far sorgere il sospetto che gli spazi per lo sviluppo socio-economico fossero ormai limitati, ma occorre considerare innanzitutto il fattore climatico.
    Gli uomini tendono a cercare come zona di stanziamento, sia se ci muoviamo nell’ambito delle prime comunità di cacciatori, o della pastorizia, sia in quello dell’agricoltura stabile, quelle in cui vi sono i terreni migliori, quelle di migrazione della fauna, le migliori condizioni ambientali (clima temperato) e l’acqua. Se poi ci muoviamo nell’ambito delle civiltà più evolute, allora a questi fattori occorrerà aggiungere i luoghi di sfruttamento delle risorse energetiche e minerarie.
    Nella storia delle civiltà antiche affiora una minore ipocrisia, rispetto alla storiografia medievale e moderna che cerca di mascherare le motivazioni dei conflitti fra le civiltà, perché una volta le guerre si facevano per controllare l’acqua, per acquisire domini territoriali per l’agricoltura, per le vie commerciali e per le risorse.
    Se si vuole attribuire un minimo di credibilità storica alla Bibbia si può riflettere sul fatto che episodi come quello degli Ebrei che si rifugiano in Egitto, a seguito di una tremenda carestia, può rappresentare il riflesso mitico di avvenimenti reali che hanno inciso fortemente sull’economia agricola dell’antichità. La carestia poteva essere provocata da una cattiva gestione dei terreni messi a coltura, in cui un’economia di sussistenza, ancora poco sviluppata, poteva non aver ancora adottato le tecniche di coltivazione che permettevano una migliore resa media dei terreni; ma può anche darsi che la carestia possa dipendere da una forte siccità, durata anche anni, e quindi da improvvisi mutamenti climatici che resero l’ambiente più arido e meno piovoso.
    Un caso a parte è rappresentato dalle conquiste dei Romani, che si spinsero fino a raggiungere terre situate a latitudini più elevate e caratterizzate da un clima più freddo, come l’Inghilterra. Ma in tal caso i Romani andarono a colonizzare terre che avevano, in quell’epoca, una notevole fertilità (come la Gallia e la Britannia) tant’è vero che in Inghilterra nel periodo romano era possibile coltivare il grano e la vite.
    Proprio sul crollo della civiltà romana si sono fatte le ipotesi più disparate, da quelle che vanno da un’implosione interna provocata dall’eccessiva crescita dell’impero, che non permetteva più di controllare le frontiere, cosa che avrebbe favorito l’avanzata dei popoli provenienti dall’Europa centrale e orientale, fino alla crisi economica, dovuta ad un tracollo del sistema fiscale e finanziario, che avrebbe indebolito lo stato romano fino al tracollo militare di fronte alla travolgente avanzata delle "orde barbariche". Anche qui occorre chiedersi fino a che punto la storiografia abbia capito realmente cosa sia successo all’impero romano.
    Sull’ipotesi che il crollo sia stato provocato dalle invasioni barbariche occorre riflettere molto, perché bisogna ammettere che le popolazioni del nord erano già presenti in modo massiccio all’epoca di Augusto e dei primi imperatori, tant’è vero che già nei primi due secoli dell’impero la cronaca storica ci parla di incursioni romane al di là della linea di frontiera, per mantenere inalterato il controllo dei territori conquistati. Inoltre la strategia politico-militare dei romani, che tendevano a "comprare" il consenso dei capitribù, che venivano spinti a lottare tra di loro, garantiva una supremazia che non avrebbe mai messo seriamente in pericolo Roma. Oltre a questo bisogna aggiungere che la potenza militare di Roma e la preparazione delle sue truppe era tale che difficilmente i popoli nordici l’avrebbero potuta scalfire, per cui se ci poniamo in questa logica, che ha un senso, evidentemente, allora occorre riflettere sul fatto che le invasioni barbariche possano essere non la causa ma la conseguenza del crollo dell’impero romano. Ma allora cosa può essere accaduto?
    Certo è importante riflettere su quanto gli scienziati ci fanno notare.
    Nei primi secoli dell’era cristiana il clima, in Europa e nel bacino del mediterraneo, era divenuto meno umido e più secco, anche se tale mutamento forse fu lieve e non interessò tutto il continente. A seguito di queste variazioni climatiche, certe zone, produttrici di derrate alimentari importanti per sfamare la popolazione, presumibilmente furono interessate da forti carestie che incisero fortemente sull’economia agricola dell’epoca. In tal senso si potrebbe valutare anche il fatto che a seguito di improvvise crisi economiche si possano essere verificate impennate inflazionistiche con aumento dei prezzi delle derrate alimentari, delle materie prime, con effetti notevoli anche sul costo della gestione finanziaria dello stato romano.
    L’esistenza di una crisi inflazionistica, anche se diluita nel tempo, sembra essere reale, perché la disponibilità di risorse di metalli preziosi cominciò a ridursi col passare del tempo, al punto che tra il I e il IV secolo le autorità romane modificarono la composizione delle leghe metalliche con cui coniavano le monete, riducendo sensibilmente la consistenza di argento nel "fino". In questo contesto socio-economico, considerano la storia politica degli ultimi due secoli dell’impero, si possono fare alcune considerazioni sul progressivo indebolimento del pachidermico stato romano, che alla fine si indebolì a tal punto da esplodere ed essere soggetto al crollo politico-militare anche di fronte alle invasioni barbariche.
    La pressione dei Barbari alle frontiere, rappresenta un segnale notevole dell’importante ipotesi secondo cui alcuni mutamenti climatici nei primi secoli dell’impero ebbero degli effetti devastanti sulle popolazioni locali, che furono spinte ad emigrare in massa verso l’Europa meridionale, nella speranza di trovare territori che permettessero una vita migliore. Questi mutamenti climatici, con un maggiore irrigidimento del clima nell’Europa settentrionale ed orientale avrebbero raggiunto il loro culmine tra il V e il VI secolo d.C., proprio nell’epoca del crollo dell’impero romano. Nella stessa epoca popolazioni provenienti dalla Sassonia (Germania centrale) si spinsero verso l’Inghilterra, a riprova che vi fu una vera e propria crisi che non coinvolse più soltanto territori romani, ma anche zone non più sotto il controllo romano, e a dimostrazione che tale crisi non fu legata alla volontà politica di annientare l’impero romano, ma a cause di forza maggiore, cioè a spinte esterne indipendenti dai fattori geopolitici.
    La tenuta dell’impero romano d’oriente dipese da fattori di forza intrinseci a tale dominazione che permisero alla stessa di resistere a sconvolgimenti epocali e, almeno parzialmente, all’avanzata dell’Islam fino al medioevo.
    Seguendo un certo ordine cronologico, cosa possiamo dire dell’Islam?
    L’unificazione dello stato islamico sotto i califfi successori di Maometto rappresentò un momento importante per la storia dei popoli del Vicino Oriente, perché rappresentò il punto iniziale da cui, tribù disastrate di abitatori del deserto, di origine semitica, con una cultura frammentaria, ma millenaria, furono unite in un unico spirito nazionale, che rappresentò la base per la travolgente avanzata politico-militare dell’Islam verso l’occidente.
    Ma cosa vi è sotto? Qual è il substrato socio-economico che sta alla base dell’interesse islamico per l’occidente? Evidentemente l’occidente stesso, una sorta di terra promessa, l’Eden a cui l’Islam aspira. Milioni di persone vivono nel deserto, in un clima che non permette, se non a prezzo di enormi sforzi, una facile sopravvivenza.
    L’Islam avanzò, a partire dal VII-VIII secolo, a passi da gigante verso l’Europa e solo la potenza militare dei principi cristiani riuscì a fermare l’avanzata musulmana, quando ormai la penisola iberica, tutta l’Africa settentrionale, la Sicilia e il Medio Oriente erano in mano alla dominazione saracena. Da quel momento in avanti, lo scontro tra queste due civiltà dura da 1.400 anni.
    In questo caso il fattore climatico incide non tanto per effetto di variazioni improvvise, che nel clima desertico non ci sono da oltre 7 mila anni, quanto per le condizioni stesse del clima che non favoriscono nemmeno lo sviluppo tecnologico della civiltà islamica.
    È importante riflettere sul fatto che l’Islam rappresentò una cultura immensa che conservò e trasmise all’occidente diversi testi provenienti da culture più antiche, come quella greca, ed ebbe un ruolo fondamentale nelle scienze matematiche, nell’astronomia, nell’ingegneria, nella medicina, nello sviluppo delle tecnologie legate alla fabbricazione della carta, alle tecniche di navigazione ecc., ma nonostante questo immenso patrimonio trasmesso all’occidente l’Islam fu tagliato fuori dalla rivoluzione industriale. Perché?
    La risposta a questa domanda non è facile, ma si può supporre che lo sviluppo della civiltà islamica fu frenato non solo dall’evolversi degli avvenimenti politico-militari (come il venir meno della cultura araba originaria e l’avanzata delle popolazioni turche selgiuchide) ma anche dai fattori ambientali nei quali si mosse l’Islam.
    L’Islam non aveva le risorse per diventare come l’occidente e su questa tragica conseguenza il clima incide moltissimo. Popoli che devono preoccuparsi di procurarsi l’acqua per non morire di sete non possono avere una rivoluzione industriale; non ci sono le condizioni ambientali, antropologiche, istituzionali perché vi sia sviluppo; tutto si ferma allo stato in cui si trova la cultura originaria, che può essere aiutata solo dall’esterno.
    A parte queste considerazioni, che ci aiutano a capire come lo sviluppo delle civiltà sia fondato su logiche abbastanza ferree, è importante mettere in luce un altro aspetto sempre legato alla storia delle civiltà, in questo caso alla rinascita dell’occidente alla fine del I millennio d.C.
    Sulla Rinascita dell’occidente, intorno all’anno 1000, la ricerca storica si è soffermata parecchio, sicuramente nel tentativo di comprendere le origini dello sviluppo socio-economico dell’Europa nei secoli che vanno dall’XI al XVI, cioè nei secoli che precedettero l’avvento del capitalismo e della Rivoluzione industriale.
    Il risultato a cui si è giunti è che intorno all’anno 1000 si assistette ad una ripresa delle attività economiche, che nel primo medioevo (dal 500 al 900 d.C.) erano ridotte all’economia di sussistenza e caratterizzate dal blocco sociale sorto intorno all’economia feudale.
    Fondamentalmente per molti studiosi (si veda il pensiero di grandi come H. Pirenne, R. Brenner) il problema dell’economia del primo medioevo fu proprio questo. L’esistenza di una società chiusa su stessa, senza possibilità di contatti con l’esterno, senza possibilità di sviluppo degli scambi commerciali, in cui il Feudo rappresentava, istituzionalmente e statualmente l’unico punto di riferimento per gli uomini dell’epoca e in cui non vi era spazio per attività produttive che andassero ad interessare istituzioni al di fuori del Feudo. Tutta l’economia ruotava intorno al bisogno di sussistenza e quindi lo sviluppo delle attività produttive si arrestò.
    In particolare H. Pirenne attribuì le cause della rottura del mondo antico e il passaggio al medioevo vero e proprio all’avanzata dell’Islam il cui rapido irrompere sulle scene della storia bloccò le vie di comunicazione con l’oriente isolando l’Europa cristiana.
    Anche qui occorre chiedersi se i mutamenti climatici incorsi in Europa, nei primi secoli dell’era cristiana, non abbiano avuto effetti più prolungati nel tempo e non abbiano interessato l’economia agricola al punto da ridurre la fertilità dei terreni a causa della maggiore aridità del clima, anche in una fase compresa fra il VI e il X secolo d.C. Infatti, se è vero che le vie di comunicazione erano bloccate dai musulmani, è pur vero che gli Arabi introdussero merci e conoscenze in occidente, riuscendo a convivere "pacificamente" per qualche tempo anche con le popolazioni sottomesse di origine cristiana. Inoltre, anche se questo avrebbe comportato sforzi enormi, le vie di comunicazione con l’oriente non erano del tutto bloccate, perché si sarebbero potuti aprire dei varchi commerciali nell’Europa orientale, ma evidentemente i costi di trasporto sarebbero stati proibitivi e inoltre i maggiori centri di interscambio erano sotto il controllo musulmano.
    Se comunque si può ipotizzare che i mutamenti climatici che colpirono l’Europa nel primo medioevo ebbero effetti duraturi fino all’alba del II millennio, allora si può riportare la crisi economica del primo medioevo ad una più consona spiegazione di natura economica legata ai mutamenti climatici stessi.
    Non è che l’Europa medievale andò in letargo; semplicemente si trovò in difficoltà per i motivi che abbiamo detto più sopra.
    Ovviamente anche gli studiosi fanno fatica a ricostruire un quadro esauriente di tali importanti avvenimenti, a causa della difficoltà a reperire testimonianze relative a quelle epoche. Vi sono per esempio scritti di importanti esponenti della comunità cristiana (si veda S. Cipriano) in cui si descrive il paesaggio delle campagne italiane all’indomani delle prime avvisaglie delle infiltrazioni barbariche; qui si lamenta il degrado in cui sono cadute le campagne locali, con l’incremento della vegetazione che assale le strade, la distruzione delle coltivazioni, l’abbandono dei campi, su cui transitano anche gli eserciti, il saccheggio delle città.
    Una crisi epocale che coinvolge anche la vita economica e sociale degli uomini dell’epoca.
    Si stima che nel periodo compreso tra il 200 e il 400 d.C. la popolazione italica si ridusse da circa 4 milioni a circa 2 milioni di persone e il regresso demografico caratterizzò non solo l’Italia ma anche altre zone dell’impero; inoltre varie pestilenze e carestie caratterizzarono questo tumultuoso periodo.
    Trascorso questo periodo di circa cinquecento anni, in cui si assiste alla fine dell’impero romano, allo scontro tra l’occidente e l’Islam, alla nascita del Sacro Romano Impero, allo sviluppo della civiltà feudale e alle attese millenaristiche, si giunge all’alba del nuovo millennio con una rivoluzione economica e sociale che ancora oggi appare avvolta nella nebbia del mistero.
    Le cause? Si può senz’altro dire che l’economia rurale e curtense che aveva caratterizzato il mondo romano e il primo medioevo si era fondata su uno sviluppo della tecnica e della scienza che era molto limitato, paragonabile a quello del precedente mezzo millennio.
    Nell’epoca romana e del primo medioevo lo stato della tecnica era tale per cui l’aratro era ancora in legno e le tecniche di coltivazione, semina e aratura non permettevano di depositare il seme in profondità.
    Intorno all’XI secolo furono introdotte una serie di innovazioni le cui origini sono avvolte nel mistero: fu introdotto l’aratro a ruote e a versoio, che permetteva di smuovere la terra più a fondo, garantendo una maggiore protezione alle sementi e quindi una migliore resa. Così pure le tecniche di tiraggio degli animali furono migliorate con l’introduzione del collare di spalla per il cavallo e del giogo frontale per il bue. Queste innovazioni con l’introduzione di nuove tecniche di coltivazione fondate sulla rotazione triennale garantirono il massimo sviluppo possibile della produzione agricola. Fu introdotto e si sviluppò il mulino ad acqua, che era già conosciuto all’epoca dei Greci ma di cui gli Antichi non avevano compreso le potenzialità.
    Al di là di questi particolari, che lasciamo alla storia dell’economia, il dato più sorprendente è lo sviluppo delle terre messe a coltura e l’incremento demografico.
    Si stima che, in una fase compresa fra il X e l’XI secolo, migliaia di ettari di terreni precedentemente incolti furono strappati alle paludi e alle foreste, con un incremento notevole della produzione agricola. A diverse latitudini si assistette ad un rifiorire delle attività agricole; in Italia furono bonificate molte zone prossime al Po e furono messe a coltura molte zone dell’Appennino.
    Gli studiosi discutono se l’incremento della produzione agricola e manifatturiera fu la causa o la conseguenza dell’incremento demografico del continente europeo, che passò dai circa 45 milioni di abitanti del 1050 ai circa 70 milioni del 1300. Bisogna ammettere che quasi nessun studioso, al di là dei mezzi che disponiamo per l’indagine storica, ha preso in considerazione l’ipotesi, considerevole, che dietro a questa rinascita dell’Europa vi sia un miglioramento delle condizioni ambientali e climatiche.
    Sicuramente, dopo i primi secoli dell’era cristiana in cui il clima era stato più arido, un lungo periodo caldo, con temperature medie più elevate e maggiore piovosità, garantirono quelle basi per lo sviluppo dell’economia tra il X e il XII secolo. Sappiamo che in questo periodo in Inghilterra si coltiva la vite e che i Vichinghi raggiunsero e istituirono alcune colonie in Groenlandia; una situazione che deve far supporre l’inizio di una fase caratterizzata da un clima più mite.
    Gli sviluppi della climatologia e le indagini storiche, non fondate solo sulla ricerca di fonti scritte ma anche sull’impiego di un approccio multidisciplinare, permetteranno di dare una risposta a quesiti ancora irrisolti.
    Sull’importanza che l’epoca storica della Rinascita dell’Europa intorno al 1000 possa avere ai fini di questo argomento occorre fare una breve riflessione su un altrettanto mistero storico che, all’incirca nella stessa epoca, caratterizzò la fine di una grande civiltà, ma questa volta dall’altra parte dell’Oceano e precisamente nell’attuale Messico.
    La civiltà dei Maya, che si sviluppò in diverse città-stato in un arco di tempo millenario tra circa il 500 a.C. fino a circa il 1000 d.C., scomparve misteriosamente e improvvisamente intorno al IX-X sec. d.C.
    Le testimonianze, che gli archeologi sono riusciti a raccogliere faticosamente, hanno dimostrato che una serie di avvenimenti possono aver caratterizzato la fine dell’impero Maya; una rivoluzione sociale che portò ad un diverso assetto delle istituzioni religiose e nobiliari all’interno della Società; tumulti popolari, legati al malcontento per tragici e inaspettati sviluppi della vita economica dello stato, tra cui il tracollo dell’economia di sussistenza; carestie e pestilenze improvvise, che annientarono gran parte della popolazione e costrinsero i sopravvissuti a fuggire verso nuove terre; l’invasione di popoli limitrofi provenienti da occidente che avrebbero insanguinato le terre Maya.
    Anche qui occorre soffermarsi a riflettere sul fatto che le carestie (a cui si possono aggiungere gli effetti che epidemie possono avere sulla popolazione malnutrita e indebolita) non sopraggiungono all’improvviso ma sono il risultato di più o meno marcati mutamenti climatici che possono aver caratterizzato un’intera area territoriale su cui è stanziato un popolo.
    Anche noi uomini del 2000 siamo alle prese con questi rischi.
    È bastato un periodo di aridità di circa 6-8 mesi nel 2003 per creare dei forti disagi all’economia agricola non solo dell’Italia ma di molti paesi europei, con forte riduzione se non addirittura perdita di alcune produzioni agricole e impennata dei prezzi. E noi disponiamo di tutte le tecnologie che ci permettono di correre ai ripari, non altrettanto potevano fare questi antichi popoli.
    Se il tracollo della civiltà Maya fosse iniziato anche a causa di mutamenti climatici che caratterizzarono l’America centrale intorno al 900-1000 d.C. viene da chiedersi se esista una relazione con i mutamenti climatici che possono aver caratterizzato l’Europa nello stesso periodo.
    Sulla sponda orientale dell’oceano si ha la ripresa dello sviluppo della civiltà europea grazie ad un miglioramento climatico che diede l’avvio al rifiorire della civiltà; sull’altra sponda dell’oceano mutamenti improvvisi, che possono aver causato trasmigrazioni di popoli occidentali possono aver travolto la civiltà Maya.
    In merito al fatto che vi possano essere mutamenti improvvisi del clima, anche con cicli di breve e brevissimo termine, si è fatto un gran parlare in questi anni dei fenomeni atmosferici di anomalo riscaldamento delle acque dell’Oceano Pacifico centrale (tra l’Australia e il Sud America) che va sotto il nome di El Niño.
    L’incremento medio della temperatura superficiale delle acque oceaniche di circa 1,5-2°C determina un incremento di evaporazione, con un relativo incremento della piovosità sulle coste americane dell’oceano pacifico e un incremento delle precipitazioni nevose nell’estrema punta settentrionale del Nuovo continente.
    A fronte di questi fenomeni si è notata una diminuzione dell’intensità dei fenomeni monsonici nell’Asia sud-orientale, con episodi di siccità nell’Asia centrale.
    Il primo risultato a cui si è giunti è che fenomeni come quello di El Niño, che hanno una durata ciclica di circa 3-7 anni, possono avere effetti su scala mondiale.
    Il fenomeno opposto, chiamato El Niña, provoca un anomalo raffreddamento delle acque oceaniche con effetti che vanno in direzione opposta; per studiare le fluttuazioni di tali fenomeni i ricercatori dello "Scripps Institution of Oceanography", dell’Università di San Diego in California, hanno studiato una colonia di coralli fossili, confrontandoli con quelli vivi, nell’isola di Palmyra, nell’Oceano Pacifico, effettuando ricerche sugli isotopi radioattivi dell’ossigeno che si riducono quando aumentano le temperature. Essi hanno dimostrato in tal modo l’esistenza di questi fenomeni già a partire dal 930 d.C. anche se è difficile stabilire con esattezza se fenomeni di così breve durata possano aver inciso in modo così marcato sul miglioramento del clima in Europa e un possibile peggioramento in America centrale intorno al 1000 d.C. Se ciò fosse possibile, si pensa a fenomeni, di durata più lunga nel tempo, i cui meccanismi non sono stati del tutto compresi.
    Il medioevo conosce dunque una lunga fase di ripresa economica, sociale e demografica che va dal 1000 fino a circa la prima metà del 1300, ma a partire dalla metà del XIV secolo inizia una nuova fase di regresso economico, caratterizzata dalla comparsa delle epidemie ricorrenti di peste bubbonica, che decimano la popolazione europea (si parla di 25 milioni di morti) in diverse fasi tra il 1348 e il 1389. In questo periodo si ha una forte contrazione delle attività economiche, con abbandono dei campi, prevalenza delle attività di pascolo, forte incremento dei prezzi, a causa della caduta dell’offerta di derrate alimentari e manufatti.
    Un periodo disastroso per l’Europa le cui cause, però, sono state individuate in modo più analitico dagli storici dell’economia, perché le testimonianze che ci provengono da quest’epoca sono decisamente più voluminose rispetto a quelle del IV-V sec. d.C.
    Sappiamo con certezza che intorno al XIV-XV secolo iniziò una fase che venne definita dagli studiosi "piccola età glaciale", in cui vi fu un generale raffreddamento del clima sull’Europa settentrionale e centrale, con forti riflessi sulle attività umane. In questo periodo le colonie normanne della Groenlandia vengono abbandonate, a causa del fatto che i porti sono bloccati dal ghiaccio e i ghiacciai nelle valli alpine aumentano in modo consistente, al punto che molte terre circostanti vengono abbandonate. In alcuni paesi come l’Inghilterra non si riesce più a coltivare la vite e addirittura il grano.
    Questa piccola era glaciale durò fino alla fine del XVIII secolo, anche se nel 1500 vi fu, in realtà, una ripresa economica molto forte che fa supporre che gli effetti di tale variazione climatica siano stati più forti nella prima fase di tale periodo (tra il 1300 e il 1400).
    Su quest’epoca di grandi sconvolgimenti che colpì l’Europa è molto interessante la testimonianza dello storico R.L. Lopez che così scrive:

    "(...) Il problema della sussistenza, che i poveri non avevano mai completamente risolto, si riaprì per primo al tempo della grande carestia degli anni 1315-17. Non furono risparmiate nemmeno le province più fertili d’Europa (...) La peste, quasi dimenticata dopo la grande epidemia del 747-750 d.C., ricomparve quasi esattamente seicento anni più tardi e portò via, forse, un terzo della popolazione europea, più di un terzo nelle agglomerazioni urbane. La guerra invece non era mai scomparsa; ma nel Trecento divampò con una ferocia e un’ampiezza nuova (...) Se si fosse trattato di calamità isolate, come ve ne erano state di quando in quando anche nell’età dell’espansione, una generazione sarebbe bastata a colmare i vuoti. Ma le catastrofi si rinnovarono, si prolungarono, si ripercossero l’una sull’altra (...) La peste ricomparve a intervalli quasi regolari (1348-50, 1360-63, 1371-74, 1381-84 ecc.), mentre l’improvvisa recrudescenza della malaria faceva il vuoto attorno a Siena, Pisa, Narbona, Aiguesmorte, e gli stanziamenti scandinavi della Groenlandia soccombevano al freddo e alla malnutrizione. Lugubremente documentata dagli scheletri sempre più rattrappiti che furono recentemente rinvenuti nel cimitero groenlandese di Herjolfsnes, la lenta agonia di quella punta estrema dell’Europa costituisce senza dubbio un fenomeno d’eccezione. Ma i villaggi abbandonati nel Trecento abbondano anche nelle terre tedesche a oriente dell’Elba, poc’anzi formicolanti di coloni in cerca di fortuna (...) gli ordini religiosi e militari di Alcantara, Alcatrava, Aviz (...) non riescono più a ripopolare i loro domini, e si sforzano invece di trasformarli in pascoli (...) L’agricoltura perde terreno anche nei paesi meglio coltivati e più fertili (...)".

    La testimonianza di Lopez ci aiuta a comprendere quali sconvolgimenti attraversarono l’Europa in quel triste periodo.
    Ciò che impressiona dai dati raccolti dagli storici sono proprio quegli indizi che confermano, tra le cause principali di questa crisi epocale, i repentini mutamenti climatici di cui la ricerca storica deve tenere conto per fornire una chiave di lettura il più possibile aderente alla realtà di quei tragici momenti.
    Indizi come la testimonianza sui mutamenti climatici nell’estremo nord dell’Europa, come l’abbandono delle terre divenute aride nella Germania centrale, come la trasformazione dei terreni in pascoli (quindi in terreni più aridi e adatti a quel tipo di attività) devono farci riflettere sul repentino abbassamento delle temperature che colse impreparati milioni di persone in tutta Europa, cui si sommarono gli effetti devastanti delle epidemie e della crisi economica.
    All’incirca nel periodo compreso fra il XII e il XIII secolo, anche i popoli provenienti dalle steppe dell’Asia centrale (i Mongoli) avevano interesse a conquistare territori a latitudini più temperate, se non a clima subtropicale, al punto da sfidare l’impero Cinese che, di fronte al pericolo delle "orde barbariche", non seppe fare molto per difendersi. La muraglia cinese, che difendeva la civiltà del lontano oriente per circa 3000 km contro la pressione delle tribù del nord, crollò quando tale pressione divenne insopportabile. Addirittura i Mongoli si spinsero fino alle porte dell’Europa rappresentando una minaccia reale per il Vecchio continente.
    Per i popoli della steppa che praticavano l’allevamento del bestiame e il seminomadismo, proprio repentini mutamenti climatici, anche lievi, creando problemi di sopravvivenza del bestiame, avrebbero rappresentato una tragedia che spingeva tali popolazioni a cercare sbocchi in altri territori con condizioni climatiche migliori, causando l’inevitabile scontro di civiltà. Anche questi avvenimenti, a noi apparentemente così lontani, possono essere stati esasperati da cambiamenti nel quadro climatico locale e aver inciso fortemente sulle strategie politico-militari e organizzative di popoli che sembrano essere inconsistenti sul piano militare ma che in poco tempo riescono a distruggere un impero millenario.
    Sicuramente nella storia dell’Umanità i popoli e le civiltà si sono scontrati quando era in gioco la sopravvivenza degli stessi, in un contesto ambientale dinamico e in continuo cambiamento. Il resto appartiene alla storia moderna e contemporanea, con i progressi della scienza accompagnati dalla vicinanza storica degli avvenimenti che ci permette di fare luce con estrema facilità su quale fosse lo stato del clima all’inizio della Rivoluzione industriale, a cui si aggiunge l’inizio delle misurazioni scientifiche e statistiche relative al clima, che ci permette di avere un quadro esauriente dalla metà dell’800 ad oggi.
    Il raffronto con il passato appare difficile proprio a causa della mancanza di dati analizzabili che costringono gli scienziati a fare ipotesi più o meno azzardate sull’evoluzione storica di questa variabile così importante e al tempo stesso così poco valutata negli studi storici.
    Qui si è voluto soltanto mettere in luce il ruolo che il clima può aver giocato nel determinare, insieme ad altri fattori e nel contesto storico di riferimento, il verificarsi di importanti avvenimenti della storia dell’Umanità, come lo sviluppo e il crollo di importanti civiltà per i quali restano ancora molti misteri non chiariti.

    BIBLIOGRAFIA:
    - "Clima e cambiamenti climatici", ENEA
    - R.S. Lopez - "La nascita dell’Europa", Einaudi 1962
    - "San Cipriano", Ad Demetrianum, 3
    - B. Proto - "Guida alla conoscenza storica", A.P.E. Mursia, 1984
    - G. Corbellini - "Geografia: una scienza per l’uomo", Principato 1984
    - J. Haudry - "La religion cosmique des indo-européens", Milano - Paris Archè-les belles lettres, 1987
     
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