ANTROPOLOGIA SCONOSCIUTA

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    BIOLOGO TEORETICO

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    Un insigne chimico, scopritore della reazione delle polimerasi, rivela le proprie esperienze di incontro non-umano. Inoltre afferma: "L'AIDS? è solo una parola".

    di Bill Chalker


    Un venerdì notte di Aprile del 1983, il dottor Kary Mullis, un biochimico, si stava dirigendo in macchina verso il suo chalet a Mendocino, nella Anderson Valley, Nord California. Durante il tragitto, Mullis concepì una delle più grandi scoperte della chimica moderna - la reazione a catena delle polimerasi (PCR), un metodo sorprendentemente semplice di fare copie illimitate di DNA, rivoluzionando la biochimica. In sostanza, nella PCR diversi prodotti chimici reagiscono con il sangue per indicare se date sequenze di DNA, inclusi i virus, sono presenti. Mullis descrisse la sua scoperta sulla prestigiosa rivista Scientific American nell'Aprile 1990 e tre anni più tardi veniva insignito con il premio Nobel per la chimica.
    Torniamo agli anni Ottanta. Un venerdì notte dell'estate 1985, Kary Mullis era ancora al volante della sua auto, diretto allo chalet. Arrivò verso mezzanotte, dopo aver guidato per circa tre ore: scaricò le provviste acquistate lungo il tragitto, accese le luci di casa (alimentate da batterie solari) e si avviò, con una torcia elettrica in mano, verso il bagno esterno, 15 metri ad ovest della villetta. Non ci arrivò mai. Citando un estratto del suo libro del 1998 "Dancing Naked in the Mine Field", quella notte Mullis incontrò sulla strada qualcosa di straordinario. "... Alla fine del sentiero, sotto un abete, qualcosa brillava. Gli puntai contro la mia torcia, ma servì solo a rendere l'essere ancora più brillante, quasi bianco. Sembrava una specie di procione luminoso. Non avevo paura. Più tardi mi sono chiesto se potesse trattarsi di un ologramma, proiettato Dio solo sa dove. Ad ogni modo, il procione parlò e disse: 'Buona sera dottore' e io risposi qualcosa, non ricordo bene, forse 'Salve'. La cosa seguente che ricordo è che era mattina presto. Stavo camminando per una strada sulla collina di casa mia". Mullis non aveva la benché minima idea di come vi fosse arrivato, ma non era assolutamente bagnato dalla rugiada mattutina. La sua torcia era sparita e non riuscì mai più a trovarla. Non presentava segni di ferite o lividi. Le luci dello chalet erano ancora accese e le provviste stavano ancora per terra. Erano passate sei ore di cui non ricordava nulla. In seguito, una zona della proprietà che definiva "la parte più bella del mio bosco" si era inspiegabilmente tramutata in un luogo che gli incuteva terrore. Circa un anno dopo Mullis esorcizzò la sua paura alla "John Wayne", scaricando il suo fucile sugli alberi del bosco. Si sottopose a sedute di psicoterapia che lo aiutarono, ma non gli fecero scoprire quanto era accaduto quella notte d'estate del 1985. Così, Mullis è diventato l'unico premio Nobel a raccontare un'esperienza riconducibile a un'abduction aliena.

    COINCIDENZE CON "COMMUNION"

    Non è facile liquidare il suo racconto con allucinazioni, dovute ad alcool o a droghe, primo perché non ne aveva fatto uso, secondo, perché non fu il solo ad aver avuto strane esperienze nello chalet. La figlia, Louise, mentre passeggiava sulla stessa collina, sparì per tre ore, riapparendo nello stesso luogo del padre, quando ormai il fidanzato, allarmatissimo, stava per avvisare lo sceriffo. Mullis non riferì a nessuno della sua esperienza, fino a quando la figlia lo chiamò per dirgli di acquistare il libro "Communion" di Whitley Strieber e per riferirgli quanto le era accaduto. Strana coincidenza, ma quando Mullis ricevette la telefonata stava già leggendo quel libro e proprio alle pagine in cui Strieber racconta di strani "gufi" e piccoli uomini che entravano in casa sua. Nel suo libro Mullis conclude: "Non pubblicherei un trattato scientifico su queste cose, perché non posso provarle sperimentalmente. Né posso far apparire procioni luminosi o comprarne uno per studiarlo. Né posso fare in modo di sparire per qualche ora. Però non rinnego quanto mi è successo. È ciò che la scienza definisce aneddotico, perché è avvenuto in un modo che non può essere riprodotto. Ma è successo".
    Dati gli accadimenti qui riportati, non sorprende che Kary Mullis ritenga che la natura della sua esperienza sia ancora più particolare di quella dei rapimenti alieni. Specula invece su esperienze psichiche multi-dimensionali (nel novero degli studi di Michio Kaku, "Hyperspace", 1994) ad un livello macrocosmico: "Qualsiasi cosa può accadere, la velocità della luce non è un limite in termini di interazioni con altre culture. Questa storia di rapire la gente e sottoporla a ogni genere di esperimento è solo antropologia, ad un livello che noi non riusciamo ancora a comprendere". Per quanto riguarda l'ipotesi di una cultura aliena che abbia bisogno del nostro DNA per sopravvivere, il dottor Mullis reputa l'idea altamente improbabile, e pensa piuttosto ad un programma alieno simile a quello teorizzato dal prof. David Jacobs. Qualsiasi cultura che possa oltrepassare la barriera dello spazio-tempo avrebbe sicuramente superato i semplici problemi di biochimica complessa, e non avrebbe bisogno di noi nel modo descritto nelle teorie dei programmi "ibridi" umano-alieni.

    MULLIS: "L'AIDS NON ESISTE"

    Le teorie del dottor Mullis, oggi cinquantatreenne, hanno sconvolto la platea di una conferenza sull'AIDS tenutasi all'università di Toronto. Confermando il suo punto di vista, condiviso da centinaia di scienziati e dottori e supportato da migliaia di persone nel mondo, Mullis ha dichiarato che l'HIV non causa l'AIDS. Gli fanno eco la scrittrice Christine Maggiore e il noto virologo e ricercatore Peter Duesberg, il quale afferma che il legame tra l'HIV e l'AIDS non è mai stato provato. L'AIDS sarebbe in realtà la conseguenza accumulata di infezioni, in particolare di malattie veneree aggravate dall'abuso di droga e da altri fattori che indeboliscono il sistema immunitario. Mullis la pensa pressappoco allo stesso modo: "Il mio pensiero differisce da quello di Peter in quanto non credo di avere prove per dire che le malattie veneree e simili siano la causa. Sinceramente non ho prove che alcunché causi l'AIDS", sostiene Mullis. "Non ci sono prove scientifiche riproducibili che supporterebbero la nozione che l'HIV è la probabile causa dell'AIDS" ha dichiarato al quotidiano Sunday Sun. "Si prendono 29 differenti sintomi e li si unisce sotto un ombrello chiamato AIDS per scopi finanziari - sottolinea il biochimico - persone appoggiate dal NIH (National Institute of Health, USA) o da compagnie private che cercano di arricchirsi curando l'AIDS. La prima volta che l'AIDS fu definito c'erano quattro sintomi diversi o malattie che lo contraddistinguevano: il sarcoma di Kaposi, un cancro della pelle, un tipo di polmonite e due funghi che non riesco nemmeno a ricordare. Adesso si è arrivati a 29 sintomi, uno dei quali è il cancro uterino e l'altro è la tubercolosi. Quando arriverà il turno dell'infarto? E che dire se tra i sintomi ci fosse l'essere investiti da un camion? Questa è una definizione incredibilmente rischiosa, come dire che una volta che si è contratto l'HIV, ogni altra malattia non sarebbe venuta se non avessi prima avuto l'HIV. L'AIDS non c'è in alcun luogo. AIDS è solo una parola". Secondo Mullis nemmeno l'HIV è sicuro. Esiste il test, ma se si è positivi una prima volta, si potrebbe essere negativi rifacendolo. "L'AIDS è una malattia americana, non ha nulla a che vedere con l'Africa. Loro hanno quello che hanno sempre avuto per 500 anni: malnutrizione e assenza di igiene. Chiamatelo pure AIDS, ma è come quando i cristiani definiscono 'diavolo' tutto quanto". Mullis non è un folle. Un altro eminente personaggio, John Scythes, crede che l'AIDS possa essere l'ultimo stadio di una sifilide non curata, con sintomi simili all'AIDS, di difficilissima diagnosi. Tali teorie fanno infuriare i dottori e gli scienziati convenzionali: temono che screditare le ipotesi ufficiali sull'AIDS getti al vento decenni di campagne che promuovono il sesso sicuro e che scoraggino i malati a usare medicine basate sul modello dell'HIV, come gli inibitori delle proteasi. "Crediamo che nuocciano a persone non bene informate" dice Paul MacPhee, co-presidente di AIDS Action Now. Secondo gli attivisti del gruppo di Mullis e Duesberg tali farmaci non curano la malattia, piuttosto, la aggravano.
     
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