Il cervello non va in pensione

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    BIOLOGO TEORETICO

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    NEUROSCIENZE Il cervello non va in pensione Il lavoro creativo è l'unico elisir di lunga vita
    Autore: GIACOBINI EZIO
    ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, ANZIANI, BIOLOGIA
    NOMI: PAULING LINUS, BURNS GEORGE, MONTANELLI INDRO, BORBONI PAOLA, LEVI MONTALCINI RITA
    LUOGHI: ITALIA
    NOTE: Allenamento delle cellule nervose



    LEGGENDO qualche settimana fa della morte del premio Nobel per la chimica Linus Pauling, che a 93 anni faceva ancora ricerca e teneva conferenze, pensavo agli italiani che desiderano ritirarsi a 60 anni (e magari anche a 50). Esiste però una categoria che vede la pensione come il preludio poco glorioso dell'annientamento mentale e farebbe carte false per evitarlo il più a lungo possibile. Questi sono i piccoli e i grandi Pauling dispersi nei vari laboratori del mondo scientifico, i ricercatori. Fanatici del lavoro, masochisti o «wolkalcoholics» come dicono gli americani? No: sono semplicemente gente che vuole continuare a lavorare perché ci prova gusto. Nell'ultimo anno della sua presidenza Reagan fece approvare una legge che aboliva il limite massimo di età con l'eccezione di tre categorie: i vigili del fuoco, i poliziotti e i dipendenti delle forze armate. Per tutti gli altri un pre-pensionamento coatto è una violazione dei diritti civili chiamata «age discrimination» (discriminazione a causa dell'età). I ricercatori ricorrono ora molto a questa legge e le più recenti statistiche dicono che oltre il 90 per cento pratica attivamente una qualsiasi forma di ricerca dopo i 70 anni e il 70 per cento è ancora attivo dopo gli 80. Per molti la cessazione dell'insegnamento o dei doveri amministrativi rappresenta una ambita possibilità di ritornare alla ricerca a tempo pieno come è possibile solo agli inizi della carriera scientifica tra i 25 e i 35 anni. Particolarmente utile è la continua interazione con gli studenti e i colleghi più giovani. Questo non vale esclusivamente per i ricercatori ma anche per chiunque abbia un lavoro vario, interessante, impegnativo ed eccitante ed al tempo stesso non sappia giocare a golf, non sia appassionato di bridge e odi il giardinaggio. Pare, infatti, che il golf sia pochissimo diffuso tra i ricercatori. Esistono motivi seri per indurci a far girare le ruote del cervello. L'epidemiologia della demenza senile, il morbo di Alzheimer, dimostra che a Shanghai come a Stoccolma, nell'Italia Meridionale come nel Nord della Francia, il numero di anni di istruzione si correla inversamente al periodo di insorgenza della malattia e al deterioramento cognitivo. Due sono le ipotesi che spiegherebbero questo fenomeno. La prima, più intuitiva, si collega agli studi fatti su animali vecchi che dimostrano un minore decadimento della memoria in un ambiente ricco di stimoli che li obblighi continuamente ad esercitarsi nella soluzione di piccoli problemi. E' pure interessante notare che il giovamento è maggiore se l'animale vecchio è tenuto con altri più giovani, i quali a loro volta imparano più velocemente (vedi scienziati vecchi e giovani che lavorano nello stesso ambiente). Il livello di istruzione maggiore avrebbe anche l'effetto di accumulare una quantità maggiore di nozioni e dati che vengono poi spesi gradualmente. Questo accumulo maschererebbe in parte l'effetto dovuto alla senilità o alla malattia. Un'ipotesi ancor più interessante è quella che si rifà all'accumulo nel cervello di una sostanza apparentemente tossica che sarebbe direttamente legata alla morte cellulare progressiva caratteristica dell'Alzheimer. Tale proteina, l'amiloide, è fabbricata continuamente nel cervello dalla nascita alla morte in quantità notevoli (milligrammi al giorno). Sembra dimostrato che in condizioni normali essa non sia affatto deleteria ma al contrario serva a stimolare quei contatti tra cellula e cellula nervosa che sono essenziali per la memoria e l'apprendimento. Pare anche che l'esercizio intellettuale faciliti l'effetto «buono» della amiloide e ne prevenga quello «cattivo». Una attività mentale continua mantenuta leggendo, risolvendo problemi che stimolino il ragionamento o forse solo il ripetere mentalmente facili operazioni potrebbe già avere un effetto benefico. E' un caso analogo all'esercizio fisico che previene il deterioramento dei muscoli e delle articolazioni. Poiché ci mancano ancora terapie efficaci per curare la perdita della memoria o per prevenire la demenza senile, il lavoro mentale è probabilmente la cura attuale migliore. E' dunque perfettamente spiegabile che chi ha un lavoro indipendente, divertente ed eccitante come la ricerca non voglia abbandonarlo per il fatto che ha raggiunto l'età del pensionamento. E' esperienza comune confermata da dati clinici che il passaggio da un'attività di lavoro ad una poco stimolante perché monotona e non motivante (vedi pensionamento) possa produrre un deterioramento mentale in certi casi anche rapido (mesi) e drammatico. E' inutile citare la lista lunghissima di pittori, architetti, musicisti e scienziati che hanno prodotto i loro migliori lavori dopo i 70 anni e in certi casi anche dopo gli 80. L'attore comico americano George Burns, che recita da solo anche per un'ora di seguito sul palcoscenico di Las Vegas, ha compiuto 98 anni e ha già firmato il contratto del grande spettacolo di gala del 1996 per celebrare lui stesso il proprio centenario con un recital di due ore. Una critica ovvia che si può muovere a questo prolungamento della vita lavorativa di scienziati e artisti è l'ostacolo all'avvicendamento nei posti di lavoro, con danno per le leve più giovani. A parte l'investimento notevole fatto dalla società e dall'individuo (oltre i 10 anni in media di studi superiori e 3-5 milioni di dollari in Usa per laboratori e spese di ricerca per un periodo di soli 20 anni), l'offerta di manodopera intellettuale anziana e a basso prezzo disposta a lavorare in nero ruberebbe veramente il lavoro ai giovani, creando un mercato selvaggio. Ma, nella maggior parte dei casi il continuare la ricerca non significa per un ricercatore anziano un grande laboratorio con costi alti, ma spesso coinvolge il solo scienziato con l'aiuto di un tecnico e l'utilizzazione di apparecchiature già esistenti. Si potrebbe quindi pensare, per la riforma delle pensioni, un differenziamento scalare basato sul grado di «noiosità» delle attività lavorative. Ezio Giacobini Università del Sud Illinois

    (fonte: TUTTOSCIENZE)
     
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